domenica 25 agosto 2013

Tradurre è un po' tradire: il caso Montale - Dickinson

Post decisamente anomalo per questo blog, ma che sovviene necessario al mio ego (necessariamente alquanto ciceroniano, ergo alquanto protervio e pieno di sé) dopo un paio di giorni di riflessioni e controlli, su un curioso caso capitatomi durante una ripetizione di italiano.
L'altro giorno infatti, cercando di preparare adeguatamente all'esame di settembre una mia allieva estiva, che seguo oltre che in latino anche in italiano, abbiamo ripreso alcuni dei testi poetici che deve portare all'esame.
Bene, affrontati senza particolari problemi alcuni testi di Saffo e di Catullo (che adesso nel biennio vengono regolarmente studiati anche in Italiano, visto che lo studio della poesia nelle sue varie forme e tematiche rientra nel piano di studi - scelta che ritengo piuttosto intelligente e azzeccata, ma che mi spinge a chiedermi, perché allora non affrontare lo stesso percorso anche per la narrativa? Forse lo fanno, ma nella mia pur limitata esperienza nell'ambito - mi capitano tante ripetizioni di latino durante l'anno, ma molto meno di italiano e la sola esperienza del doposcuola salesiano non mi ha troppo illuminato in questo senso - anche lì tanta poesia, anche straniera, ma pochissima narrativa - non ho riscontri adeguati), giungiamo a una poesia della Dickinson (poetessa americana a me nota sostanzialmente quasi solo di nome e di periodo storico - come forse alcuni lettori di questo blog sapranno, per me arte e letteratura potevano chiudere con il Rinascimento fiorentino, a parte rare eccezioni e forme narrative diverse, quali horror, fantascienza e fantastico in generale), Tempesta (che non è il personaggio degli X Men). Poesia breve, di sensazioni, a giudizio personale nulla di particolare (ma ripeto, i poeti potevano chiudere grosso modo con Dante... e solo perché e di Firenze, altrimenti fermarsi a i lirici Greci e, vai esageriamo, giusto a Orazio e Virgilio - perché già Ovidio lo trovo superato - per i Romani, sarebbe già stato segnale positivo per il sottoscritto), testo sul quale francamente non trovo molto da dire. Leggo con l'allieva il paio di paginette che accompagnano il testo, dove, aldilà della osannatissima e sbandieratissima sublime traduzione di Montale, si dice ben poco d'altro che sia utile per lo studente (a malapena si introduce la Dickinson, che dubito che lo studente italiano di seconda superiore sappia seppur vagamente chi sia - uno parecchio più anziano, stile il sottoscritto, ma anche più antico, potrebbe pensare, sentendo il cognome all'interprete del sergente Pepper - ma anche di ottimi western - nel telefilm anni Settanta, ovvero Angie Dickinson; uno studente che almeno meriti il mio rispetto da metallaro sentito il cognome lo abbinerebbe subito a Bruce, pochissimi, se non nessuno alla problematica - nel senso della sua esistenza - poetessa statunitense). Ora, fin qui non ci sarebbe neppure nulla di troppo strano, considerato il livello dei testi liceali contemporanei; il bello viene con le domande relative al testo, che assurdamente, vertono in gran parte sulla valenza stilistica del testo, sulle sensazioni che suscita, e compagnia cantante.
Se a qualcuna, che pure a me darebbe adito a contestazioni, si può grosso modo rispondre, altre sono il trionfo dell'assurdo, perché si riferiscono al testo italiano - sublimemente tradotto da Montale (notate dell'ironia? Chi sono io per schernire un nobel per la letteratura? A parte il fatto che hubrys is my middle name e che Eschilo avrebbe dovuto inventare le Erinni per il sottoscritto e non per il povero Oreste - dimenticandosi tra l'altro delle Eumenidi, perché non mi sento affatto pentito - l'ironia è in questo caso rivolta non tanto al poeta - che pure come vedrete a breve non è esente da colpe - quanto a chi ha scritto il libro e si è sentito in dovere di continuare a battere il tasto sull'eccezionale qualità della traduzione di Montale) - che è inevitabilmente diverso dal testo inglese originale.
E qui si arriva al punto focale di questo sfogo (che immagino ben pochi siano riusciti a sostenere sin qui, se non animati da masochismo all'ennesima potenza o dalla morbosa curiosità di vedere fin dove posano spingersi i tasti del sottoscritto quanto lascia libero sfogo alla tracotanza - fin troppo spesso, in realtà): la resa di una poesia in una lingua diversa dall'originale. E porgo subito la mia risposta: nonostante quello che si è fatto e si continua a fare, trovo in linea di principio assolutamente sbagliato affidare a poeti di eccezionale livello qualitativo la traduzione di poesie straniere di livello paragonabile. La poesia, nella gran parte dei casi e comunque indubitabilmente nella poesia lirica, è espressioni di sentimenti individuali, personali, in taluni casi solipsistici (nel senso che derivano dalla visione individuale del mondo di ciascuno di noi, diversa da quella di chiunque altro, qualunque cosa si voglia sostenere di diverso, a livello filosofico o meno: per me non esiste un mondo delle idee socratico/platonico, ma un singolo iperuranio per ciascuno di noi, influenzato da quello di ogni altra esperienza si venga in contatto, ma sempre indubitabilmente individuale; è ciò che rende straordinaria l'esperienza umana e che rende possibile che un singolo individuo sia un genio per alcuni e un vero cialtrone per molti altri; è il numero delle persone che ti ritengono un genio o che ti ritengono un cialtrone a segnare tutta la tua esistenza, non la tua qualità intrinseca - che ammetto, ovviamente, possa essere incredibilmente diversa. Ma sto divagando troppo... basta così al riguardo), e viene espressa dall'autore nella lingua che meglio conosce, con il linguaggio che meglio esprime - a suo unico e indiscutibile parere - i sentimenti che prova. Se il poeta è mirabile, riesce a farlo nel migliore dei modi, non lo si può migliorare, non lo si può toccare, non lo si può rendere in un'altra lingua. Una qualsiasi di queste operazioni infetta il testo originale, l'intento poetico, lo scopo ultimo dell'autore. Secondo me, quindi, una poesia si può realmente apprezzare soltanto nel testo originario in cui è stata scritta, conoscendo quindi più che degnamente la lingua. Altrimenti, se ne legge soltanto un'eco lontana, una copia che per quanto ben fatta, per quanto sublime (per tornare all'aggettivo che tanto mi ha disturbato), risente inesorabilmente del traditore che l'ha tradotta: che il tradimento sia macroscopico o infinitesimale è solo una questione di sfumatura, l'infezione c'è e comunque la si vede (se se ne hanno le capacità - e qui riemerge possente l'hubrys da poco sopita).
E quest'infezione - ed eccomi ad andare giù peso - si sente in modo assolutamente maggiore quando è un grande poeta a usare la sua lingua per tradurre quella di un suo pari di epoca, tradizione e lingua diversa.
Per non svolgere un vero e proprio trattato - che appare distonico rispetto all'ambiente in cui scrivo al momento - il problema del grande poeta che traduce un suo simile è quello di essere troppo bravo e troppo grande di suo per poter rendere un suo pari senza sentire il bisogno di far sentire la propria interpretazione (necessariamente elevata perché straordinaria è la competenza semantica e la capacità di espressione del poeta traduttore). Così avviene, per fare un esempio che mi rendo conto sia alquanto fuori tema, ma non posso esimermi dal fare (hubrys dove mi porterai), nel caso delle versioni italiane di molte canzoni inglesi o americane degli anni Sessanta e Settanta. Quando Mogol scrive Senza Luce per i Dik Dik, partendo da A Whiter Shade of Pale dei Procul Harum (se non le conoscete - a parte il fatto di essere probabilmente troppo giovani o musicalmente ignoranti, nel senso semantico del termine- correte ad ascoltarle, perché altrimenti avrete perso dei capolavori), compie un vero e proprio delitto semantico, ma scrive un grandissimo testo, da unirsi in questo caso a una musica talmente bella da risultare straordinariamente efficace sia in italiano che in inglese. Lo stesso avviene quasi sempre quando un grande poeta traduce un altro grande poeta: può venirne fuori un altro capolavoro - raramente - o comunque una bella poesia, di rado però in grado di trasmettere le stesse sensazioni intese dall'autore - e che spesso possono venir percepite pienamente - e si torna al solipsismo e all'iperuranio individuale di cui sopra - soltanto da chi li scrive.
Per completare il quadro, mettere le ciliegine sulla torta e abbandonare questo post delirante al giudizio dei posteri - notate l'allitterazione e il differente significato semantico, assolutamente casuali - qualche riga bisogna spenderla anche sulla sublime traduzione di Montale (e vai che si colpisce il nobel!): prima di tutto, eccovi il testo di Montale e sotto quello della Dickinson

La Tempesta

Trad. di Eugenio Montale (1953)
Con un suono di corno
il vento arrivò, scosse l'erba;
un verde brivido diaccio
così sinistro passò nel caldo
che sbarrammo le porte e le finestre
quasi entrasse uno spettro di smeraldo:
e fu certo l'elettrico
segnale del Giudizio.
Una bizzarra turba di ansimanti
alberi, siepi alla deriva
e case in fuga nei fiumi
è ciò che videro i vivi.
Tocchi del campanile desolato
mulinavano le ultime nuove.
Quanto può giungere,
quanto può andarsene,
in un mondo che non si muove!

The Storm

There came a wind like a bugle;
it quivered through the grass,
and a green chill upon the heat
so ominous did pass
we barred the windows and the doors
as from an emerald ghost;
the doom's electric moccasin
that very instant passed.
On a strange mob of panting trees
and fences fled away
and rivers where the houses ran
the living looked that day.
The bell within the steeple wild
the flying tidings whirled.
How much can come
and much can go,
and yet abide the world!
Emily Dickinson

Ora, senza dilungarmi in modo eccessivo, è evidente anche con una conoscenza non troppo approfondita - e non poetica - della lingua inglese, che Montale ha operato diverse modifiche alle scelte semantiche della poetessa statunitense, alcune pertinenti, altre decisamente meno (usare un arcaico toscanismo come "diaccio" per rendere "chill"? O peggio, rendere "electric moccasin" - la sinuosità serpentiforme del fulmine - con "elettrico segnale"? Già qui, ci vedo ben poco di sublime...), ma con un minimo di attenzione si coglie anche un grosso errore terminologico, che guasta del tutto - e non si limita ad infettare - il senso della poesia della Dickinson.
Il termine "abide" non vuole indicare l'immobilismo, l'impermeabilità del mondo, pur sottoposto al Giorno del Giudizio (che Montale si sente di ingrandire e nobilitare oltre l'intento della Dickinson con una maiuscola, assente nell'originale, per caratteristica intrinseca della poetessa), quanto invece la sua capacità di perdurare, di resistere a ogni insulto, a ogni dileggio scagliatogli dal Cielo (e qui sì, si può usare la maiuscola, comunque si voglia intenderla).
E infatti, una traduzione trovata in rete di un semplice appassionato di poesia italiano (tanto semplice appassionato, in realtà non deve essere, visto che si è preso la briga di tradurre l'intero corpus della poetessa americana... i miei complimenti a Giuseppe Ierolli!!), non certo noto e sbandierato come Montale (nel libro di testo scelto a perenne ludibrio per la scarsa qualità dei testi scolastici nostrani), rende in modo forse meno poetico, ma per me molto più aderente all'originale il testo della Dickinson (che comunque ha alcune lievi modifiche, specialmente nell'uso delle maiuscole).

Venne un Vento come di Buccina -
Vibrò attraverso l'Erba
E un Verde Brivido sulla Calura
Passò così sinistro
Che sbarrammo Porte e Finestre
Come per uno Spettro di Smeraldo -
L'elettrico Mocassino del Giudizio
Proprio in quell'istante passò -
Un'insolita Turba di Alberi ansimanti
E Steccati divelti
E Fiumi in cui correvano le Case
Questo vide chi era vivo - quel Giorno -
La Campana nella torre sconvolta
Le volanti notizie riferiva -
Quanto può venire
E quanto può andare,
Eppure il Mondo perdurare!

E' grosso modo come l'avrei tradotta io (senz'altro peggio... rinovvo i complimenti al bravissimo traduttore - altro che Montale!).
E con questo, dopo aver gettato palate di sterco su di un premio Nobel per la letteratura (ed aver nel contempo esaltato la qualità letteraria e l'abilità di traduttore di una persona a me assolutamente - e immeritatamente - sconosciuta) e ancor più sul libro scolastico origine di questo lunghissimo - e forse inutile - post - mi congedo da voi, invitandomi a farmi sapere cosa ne pensate dei punti salienti di questo mio fin troppo arzigogolato pensiero.

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